Antartica follia

Oggi, uno dei vostri affezionati Grandi Antichi ha potuto mettere mano su uno splendido cofanetto lovecraftiano: Le Montagne della Follia illustrato, splendidamente, da François Baranger, già cimentatosi nel Richiamo di Cthulhu1, editi entrambi dalla casa editrice Raven Distribution2.
Non mi dilungo sul racconto, perché dovreste già conoscerlo e lascio invece spazio alle immagini!


  1. Che ovviamente consiglio. 
  2. Editore anche del gioco di ruolo del Richiamo di Cthulhu tra le altre cose. 

Yog-Sothoth

Come da titolo, Ysingrinus si cimenta con un semplice acquerello: ecco quindi una semplice rappresentazione del nostro amato Dio Esterno, colui che conosce la porta.


«[…] Yog-Sothoth è la porta. Yog-Sothoth è la chiave e il guardiano della porta. Passato, presente e futuro coesistono in Yog-Sothoth.»

«L’immaginazione richiamava la sconvolgente forma dell’eccelso Yog-Sothoth — solo un cumulo di sfere iridescenti, tuttavia stupenda nella sua maligna allusività.» – H. P. Lovecraft, L’orrore nel museo


Acquerello su cartoncino, 17,5×19,4cm

Primordiali origini

Il sonno dei Grandi Antichi viene interrotto per motivi piú che validi.

Un ignoto artista, sicuramente un folle studioso di dottrine ormai dimenticate, ci ha contattati per mostrarci uno schizzo.

È un tipo.

Abbozzato su un pezzo di carta qualunque, in uno stato di confusione, l’Antico ha preso forma, rivelando tutto il suo orrendo splendore!

Un lampo nel vuoto, un bagliore, poi piú nulla. Il mistero dell’origine della vita sul nostro pianeta ancora non è stato completamente rivelato, per fortuna.

Forse

Messaggio 2007TN165

Gianni ha mandato alla nostra tentacolosa redazione non euclidea un racconto particolare, il cui tema è senza alcuna ombra di dubbio da Grandi Antichi, ma la cui realizzazione è realmente sui generis. Non aggiungo altro, anche se ci sarebbe da farlo per una critica ragionata, per non rovinare la storia ai lettori.


Messaggio 2007TN165

Sto registrando questo messaggio perché temo sarà l’ultimo che potrò redigere prima che vengano a prendermi, oppure prima che il mio cervello si adatti e si modelli così da modificare il mio pensiero, lasciandomi indifferente a ciò che è accaduto.
Nove giorni fa ho dato inizio all’esperimento sui sogni come veicolo per la duplicazione della mente umana. Ho collegato al mio corpo gli elettrodi, tutti gli strumenti, le sonde e gli stimolatori, poi mi sono introdotto nel simulatore installato sul computer quantistico dell’Università. Da quel momento ho cominciato a costruire, come previsto dai piani preparati in anni di studi, un insieme di percorsi mentali, con l’obiettivo di replicarli all’interno della matrice elettronica dell’elaboratore. In buona sostanza la mia coscienza si sarebbe dovuta propagare, seppure in piccola parte, in un sistema esterno. Avevo intenzione di rendere immortale almeno un briciolo del mio schema di pensiero per potervi interagire. L’esperimento sui sogni in corso all’Ateneo me lo avrebbe permesso.
Quando mi sono collegato la sera successiva, ho subito notato che lo schema si era evoluto senza di me. L’elaboratore aveva dato luogo a nuovi percorsi, nuovi pensieri. In quel momento avevo provato gioia pura.
Esaltato da questa sensazione mi sono immerso per ampliare la replica, e così il giorno successivo, e il giorno dopo.
Il sesto giorno, però, ho sentito in me una cosa diversa crescere. Una volta immerso nel sogno e connesso, i miei pensieri sono stati influenzati dallo schema presente nel computer quantistico e non viceversa. La sensazione è durata il tempo di un battito del cuore, per poi svanire come fanno i sogni al risveglio.
Solo analizzando le mie onde cerebrali e i report tecnici, mi sono reso conto che una parte del mio cervello era cambiata. Affascinante e terribile, perché ho finito per non rendermene più conto in seguito se non leggendo i dati.
Proseguii con una certa urgenza. Il mio esperimento non figurava tra quelli leciti, non potevo dire niente a nessuno, ma non mi importava, qualcosa mi spingeva a continuare, continuare e tentare l’estremo, replicare il mio pensiero in una macchina, con la speranza di preservare la coscienza, anche a rischio di perdermi.

Due giorni fa li ho visti. Quel giorno si sono manifestati verso la fine dell’esperimento. Prima ho notato come sagome indefinite, poi sempre più nette, nitide. Avanzavano ora a quattro zampe, ora drizzandosi in piedi, ora strisciando. Creature con molte bocche e denti all’infinito, che correvano su di un pavimento di pietra diventato solido tra loro e il mio punto di vista. Mentre si avvicinavano parevano avere più forme, le vedevo mutare mano a mano che la mia consapevolezza di loro progrediva. Sono scappato, ma qualcosa in me si è rotto, una parte del pensiero si è trovata senza schemi, senza una controparte. Davvero il mio cervello poteva avvertire la mancanza di ciò che c’era nel computer?
Ieri, ultimo giorno, sono stato lontano dal laboratorio, ho tentato di restare disconnesso, ma li ho visti di nuovo, più vicini, sempre più vicini, mi prenderanno, sono dentro di me.
E allora mi sono imposto di scrivere tutto quel che so, perché da qualche parte nel pensiero, nelle dimensioni ulteriori a quelle a cui siamo abituati, si annidano creature esterne, forse sono le divinità tanto temute nel passato. Ho paura adesso.
Ecco, adesso le vedo, è come se le scorgessi appena con la coda dell’occhio, sono dentro di me, ma la parte di me che può capirle non c’è, prigioniera nel simulatore. Ecco, arrivano.

Bianca era seduta di fianco alla stampante laser del datacenter, quando un foglio uscì.
“E questo?” chiese al collega Marino
“Boh, qualcuno stampa qua?”
“Ma che roba è?” fece dando una sbirciata, “sembra un racconto e per giunta scritto da un pazzo”.
“Fa’ vedere?” Marino lo lesse un paio di volte. “Non saprei, magari è il computer che ha generato qualcosa sulla base della simulazione in corso”.
“Ah, già, l’esperimento sulla scrittura creativa. Lo portiamo al professor De Salvo?”
“No, come non lo sai? Lo hanno ricoverato ieri mattina, è in terapia intensiva, non riescono a capire cosa gli sia preso. E’ ridotto a un vegetale”.
“Ah, allora andiamo a farlo vedere alla profe’ Mancini? In fondo è lei che ha fatto partire la nuova serie di test”.
Marino lo accartocciò e scosse la testa.
“Ma no, sai com’è fatta, tutto dev’essere sotto controllo, preciso, pianificato. E poi domani cancelliamo tutto e impostiamo una nuova simulazione nel computer quantistico. Stavolta sarà stimolato con la pittura: dipinti astratti”.
“Una nuova? Peccato, quella che simulava il pensiero di HP Lovecraft mi piaceva”.

Confessione di una sedicente strega

L’esperta penna di Francesca ci prende per i tentacoli portandoci in un mondo già visto eppure ignoto. Con lei potremo esplorare le insondabili profondità dell’orrore che, oltre il velo, si nasconde e permea la nostra realtà.
Un racconto un po’ particolare, questo, che vedrà però la possibilità di espandersi e diventare piú articolato, esplorando vari aspetti dei Miti, anche quelli piú ignorati, grazie alla prolifica fantasia di Tersite, e a quella di tutti coloro che sanno quanto sia bene e giusto adorare i Grandi Antichi.
Iä! Iä!

Confessione di una sedicente strega

Ho recitato ogni preghiera che mi abbiate insegnato. Mi sono confessata docilmente. Ho reso grazie alla Madre Celeste. Il mio operato senza macchia e la mia obbedienza, il timore di Dio e il mio essere Sua serva, proprio questo mi induce a rinnegare tutto, voi, lui e la vostra Madre Celeste, per accostarmi a ciò che voi ritenete demoniaco, considerandomi ciò che chiamate strega. Cercate sul mio corpo un segno qualsiasi, non troverete alcunché. Cercate nella mia mente un segno di perversione, non ve ne troverete. Guardatemi bene: Isotta Alberti è il cane che morderà la vostra mano per avergli generosamente offerto del cibo marcio. Ho passato tutta una vita accompagnata da cani e questo è quel che sono stata, un cane.
In vita mia ho avuto l’affetto di una madre che non ho mai conosciuto, di un padre e di un piccolo cane bianco. Le ho insegnato a camminare su due zampe, bastava farle un cenno e obbediva. Ogni sera aspettava il mio ritorno sulla soglia di casa. Ero ben felice di occuparmi di entrambe, ma un giorno iniziò a rifiutare il cibo e a non alzarsi dal suo giaciglio. La situazione non accennava a migliorare. Ho pregato il Signore perché la facesse guarire, ma dovevo essere già un’anima dannata, perché non ho meritato alcuna risposta. Quando il cane ha iniziato anche a rifiutare l’acqua, ho pregato perché smettesse di soffrire, ma il vostro Signore continuava a starsene zitto.
Respirava a fatica. Tutto quello che riusciva a fare era andare avanti e indietro fra una pila di cenci e il tappeto accanto al mio letto. Era una sofferenza sentirla soffrire, sapendo, poi, di non poter fare niente. Una notte i suoi guaiti mi svegliano; non faccio in tempo a prenderla in braccio, che sento le sue viscere svuotarsi. All’alba del giorno seguente, l’ho sepolta nel mio giardino, all’ombra di un ciliegio.
Quando ho calato il corpicino nella fossa, ho visto me stessa. Io, signori, non ho posseduto che cani; 9mi hanno accompagnato in ogni momento della vita e sono diventata come loro. Senza difesa, felice sempre. Mi sono sempre accontentata. Sono stata una presenza accomodante, accogliente, silenziosa quando necessario. Dipendente dalla volontà di un uomo, sia esso un padre o un parroco. E riconosco di aver avuto avuto fortuna, perché non mi sono ritrovata con un uomo che mi considerasse di sua proprietà, o che mi strappasse una promessa d’amore eterno, come la catena al collo di un molosso. Qualche giochino, anche quello m’avete insegnato. Recitare a memoria le vostre belle parole, chinare la testa al vostro passaggio, baciare i piedi di una statua. Che differenza c’è fra voi e me che insegno a un cane a stare in piedi su due zampe?
Qualcosa, però, sarebbe cambiato. Non molti giorni dopo, mi trovo lungo la strada nel castagneto, all’altezza del ponte di pietra, quando noto un gatto giocare con qualcosa. Grigio, striato di nero, paffuto e con gli occhi verdi, il gatto si accorge della mia presenza e si ferma a guardarmi, con una zampetta alzata. Ho sempre avuto paura dei gatti, delle loro unghie e della loro natura, capricciosa e imprevedibile. Eppure, non c’è mica da aver paura, non sono la progenie del demonio, né tanto meno i classici famigli da strega. Quel gattone, certamente, non m’è sembrato capace di fare del male. L’ho studiato per un po’, senza ardire di toccarlo. S’è fatto avanti lui, con grandi fusa, socchiudendo gli occhi. Animale interessante. Una cosa mi ha insegnato: i gatti ti scelgono. È stato lontano da me, mi ha osservato, poi ha deciso di fare un passo avanti, ma solo quando ha capito che gli avrei portato rispetto. Quando ho preso coraggio, ho fatto per dargli una carezza, ma non ci sono riuscita. Il gatto ha preso a trotterellare verso il torrente, sparendo dietro un grosso albero. Sono tornata a casa sorridendo, stringendo in mano un piccolo regalo del gatto. Non erano foglie quelle con cui stava giocando, ma pagine strappate da un libro.
So leggere, con difficoltà, ma so leggere. Certo, quelle pagine si sono dimostrate difficili da intendere, sia per i caratteri che per il contenuto. Segni arcani e complessi, immagini bizzarre, numeri, linee. Il ritratto di un uomo anziano, con radi capelli neri, gli occhi chiari e pieni di una profonda tristezza, vestito di un semplice abito scuro. Qualcosa in quelle pagine mi ha attirato fortemente, piene di una malia che m’ha impedito di pensare a ogni altra cosa. Per ore non ho sentito la fame né il sonno; mi sono arresa solo quando si è spenta anche l’ultima candela. Mi sono addormentata ancora vestita, sul letto, con le pagine strette a me.
Quella notte, ho sognato qualcosa che mi ha segnato profondamente.
Mi trovo in un luogo che so essere la mia casa, intenta a parlare con una donna che so essere mia madre, che mi chiede di prendere della legna da ardere. Raggiungo la porta che da sul cortile sul retro, ma sulla soglia vengo bloccata da una piccola figura ricurva. Faccio per scansarla, ma toccandola ne faccio cadere il cappuccio. La strega mi fissa dritto negli occhi, la mano nodosa contro il mio viso.
“Sarò punita”, penso, mentre salgo velocemente al cielo. I monti intorno alla casa, cime e cime ricoperte di neve, si fanno lividi, mentre mi schianto da un’altezza impressionante, proprio ai piedi di mia madre. Vedo tutta la scena dall’esterno, la mia famiglia che si riunisce intorno al mio corpo squassato dalla caduta, mia madre che si inginocchia e prega. Aleggio come uno spirito sopra la sua testa, la ascolto, ma poi mi prende il desiderio di salire al cielo. Posso vedere tutto, il prato, i campi coltivati, il tetto della casa e la neve sopra i monti. Ben presto riesco a intuire la forma sferica della Terra. Sopra la mia testa, una Luna enorme, costellata da immensi crateri. Mi addentro in un’oscurità vischiosa, priva di luce. Non ho potuto fare un passo oltre, perché ho rifatto la strada a ritroso, avvicinandomi velocemente alla Terra e al mio corpo. Fino a quel momento, non avevo mai immaginato che si potesse soffrire tanto in un sogno.
Mi risveglio in pieno giorno, chiedendomi se non fosse stato un sogno, ma un ricordo, terrorizzata e insieme euforica. Mi sono scontrata per un istante con l’immensità del cosmo ed è stato tutto così vivido. Ho vissuto quelle cose sulla mia pelle, il dolore, persino la mia morte. Dopo un sogno come quello, immaginate quale paura potessi avere delle unghie di un gatto. Nei giorni a seguire ho visto molte volte ancora il gatto striato, gli ho accarezzato la testa, persino la pancia. Ho scoperto che la diffidenza che attribuivo alla specie felina è solo iniziale. Affidano anche loro la propria vita nelle tue mani, ma si riservano la possibilità di ferirti se non presti loro rispetto. Ci credereste? educata da un gatto. Una lezione di vita, da una bestia che disprezzate! Come ho trattato male quella cagnolina, potevo trattarla come mia pari, e non come un sollazzo.
Adorabile bestiola! Non solo il gatto ha accettato la mia compagnia, ma mi ha mostrato molti nascondigli dove avrei trovato nuove pagine, pagine fitte di parole coerenti e affascinanti. Veramente, queste bestie sanno vivere, sono antiche, partecipano della radice di questa esistenza il cui senso voi volete trovare a ogni costo. Non c’è alcun senso, c’è solo la vita, ma cosa ne volete capire voi, che venerate la morte, la stasi, l’eterna immobilità?
Mi sono resa conto di poter vedere tutto con occhi diversi. Tenere in mano una foglia ha significato pensare alla sua storia, alla sua nascita e alla sua futura marcescenza, alla luce che l’ha usata come strumento per dare nutrimento al maestoso albero. Tutta quella luce ha fatto vibrare la sua struttura, eccitando le più sottili componenti della sua essenza. La natura tutta brulica di vita, dal pianeta che abitiamo al filo d’erba.
Vi chiudete nelle vostre chiese a pregare un dio di cui cantate la resurrezione, ma alla fine dei conti non sapete che parlare della sua morte e della sua sofferenza. Questo venerate, la sofferenza, insieme a pezzi di gesso e statue di pietra. Io ho scelto di venerare il cosmo, la luce nella sua duplice natura, venero il calore, l’entropia, il principio di conservazione dell’energia, la materia e il tempo che si contorce. Quale meraviglia è l’universo? Nell’infinitamente grande come nell’infinitamente piccolo, siamo tutti parte dello stesso immenso assoluto. E voi? Cosa vorreste? Che mi fustigassi in una stanza buia in remissione dei miei peccati? Preferirei morire adesso.
Non posso che ridere delle vostre certezze, voi che siete cani per qualcuno tanto quanto io sono stata cane per voi. Mi avete educata bene, sono stata anche io un animale intelligente, addestrata per compiere giochi per farvi divertire e arricchire. Ora non perdete tempo, bruciatemi, avete la mia confessione. Interrogate anche queste donne portate come me a giudizio, ma sappiate che loro sono senza colpa. Avete trovato la vostra strega, ma disgraziatamente per voi non servirà a niente. Non mi sarà di alcuna soddisfazione venire a prendervi uno per uno, perché cani siete e cani resterete, continuerete a leccare la mano che vi disprezzerà. Mantenere la vostra natura è già una sufficiente punizione. Le risentirete queste parole, ormai è tardi, per voi non c’è alcuna possibilità di salvezza, brucerete anche voi, ricordati per sempre nella sentina della storia, per tutti i secoli a venire, vi maledico, perché non imparate mai! Brucerete, così come proverete a bruciare me!
[Isotta Alberti viene tradotta sul luogo dell’esecuzione dal carceriere, sola e senza subire alcuna tortura. La sua firma in calce alla confessione è stata sufficiente per garantire alla donna una punizione rapida, ma non per questo poco cruenta. Dopo aver terminato il suo discorso di fronte alla commissione, la donna non proferirà altra parola, nemmeno quando verrà appiccato il fuoco alla pira per la sua esecuzione. Non esistono testimonianze dirette di quanto successe il 28 febbraio 1570 a T. subito dopo l’esecuzione, si sa solo che non sono stati trovati resti umani allo smantellamento di ciò che restava della pira, il che ha portato al fiorire di voci più o meno assurde. C’è chi dice che Isotta Alberti infesti in forma di spettro il bosco nei dintorni della sua casa, tuttora usata come abitazione da un gran numero di gatti]

L’arte dei Grandi Antichi non è come spesso si crede

Come recita il famoso distico? «Non è puccioso ciò che può terrificare in eterno/Ma in strani eoni anche il terrore può morire»?

Ed ecco che Tati ce lo ricorda splendidamente suggerendo un’anatomia alquanto umana al nostro Grande Sacerdote preferito e poi un’altra un poco piú… un poco piú!

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Come dicevamo, un’anatomia molto umana.



Ma non si esaurisce qui l’estro tatiano perché, come avevamo preannunciato in apertura, niente è come sembra e cosí scopriamo il vero, terrificante, aspetto di Cthulhu!

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Un pucciosissimo Baby Cthulhu per infestare i sogni dei piú sensibili.


Paura, terrore e pucciosità! Ecco le tre parole che caratterizzano il nostro amato Cthulhu in questa fosca fase di allineamento planetario. Tremate e temete o stolti! Cthulhu verrà da voi e vi riempirà di coccole fino alla pazzia!

Nel deserto

Il Sole cocente brillava alto in cielo, inclemente e spietato, forse inconsapevole della sua potenza e dei suoi effetti. La sabbia bruciava sulle mutevoli dune mai uguali, tanto speciali da regalare un paesaggio differente ai mangiatori di carogne abbastanza forti, e spietati, in grado di vivere in quel deserto.
L’anziano missionario faticava a reggersi in piedi, barcollando stremato nel corpo e nello spirito. Già da molti anni aveva messo in conto che la sua non sarebbe stata una vita semplice, che sarebbe potuto morire cercando di portare la parola e, soprattutto, il conforto del Signore a chi piú ne aveva bisogno. I popoli che non hanno nulla, che non hanno mai conosciuto il tocco di Dio, dell’unico dio realmente esistente…
Una risata gli si strozzò in gola, «unico dio… esistente…», poteva essere stato piú sciocco? Piú sprovveduto? Per tutta la vita si era accontentato di una favoletta. Rassicurante, certo, ma non abbastanza per basarci tutta la propria vita, purtroppo. Non solo vi aveva basato la propria esistenza, addirittura cercava di farcela basare anche agli altri. Come se non ci fossero già abbastanza stupidi al mondo!

***

La perdita di sali lo faceva tremare, facendogli formicare gli arti e rendendogli l’avanzata sempre piú ardua: lo avevano avvisato, quando era partito, del pericolo che poteva rappresentare il Sole, ma ora non aveva altra scelta che gettarsi a perdifiato in quella torrida morsa mortale perché non poteva restare ancora in quel villaggio, non con il rischio che profanassero le carni una volta ucciso. Non lo spaventava la morte, quello che sarebbe venuto dopo lo terrorizzava. Ciò che sarebbe accaduto al suo corpo ed alla sua “essenza”, cosí l’avevano chiamata. Chiaramente non scherzavano e non parlavano per metafore: gli avevano mostrato i monili realizzati con quel metallo innaturalmente caldo, istoriati con quegli abominevoli glifi che, solo a vederli, facevano girare la testa, e fatto leggere una traduzione blasfema di un tomo antico come il mondo. Alcuni stralci di quell’assurdo testo, formule e pratiche per ottenere l’immortalità della carne, per la trasmigrazione dei pensieri. Tecniche per restare vivi una volta morti, strumenti per simulare l’esistenza e torturare in eterno i malcapitati mandati in viaggio tra le stelle.

***

Le pareti della capanna erano erano ricoperte di ossa umane, forse interamente costruite con esse, fu una visione devastante per il povero missionario che, improvvisamente, realizzò che lui doveva essere la prossima vittima di quella tribú degenerata aveva designato come offerta per le loro oscure ed impronunciabili divinità!
Cosí, come un ossesso, si lanciò verso l’uscita di quella angusta trappola, tra le risate delle iene che già pregustavano il sapore del suo sangue ma, fatti una decina di metri scarsi, di fronte a lui si palesò l’uomo piú alto, e vecchio, che avesse mai potuto vedere: la pelle incartapecorita era una costellazione di rughe e solchi scavati dal tempo, i capelli grigi e voluminosi sembravano fatti di polvere, i denti consumati dalle ossa rosicchiate e le mani deformate dall’artrosi inarrestabile; ma la sua voce, una voce non umana, querula e gracchiante, carica del peso dei secoli che accompagnava quel corpo impossibile, lo fece trasalire definitivamente, paralizzandolo sul posto.
Le oscure parole, che udiva pronunciate da quell’uomo mostruoso, erano le stesse del libro che gli avevano fatto leggere nella capanna! Non le conosceva, né poteva capirle, ma in qualche modo era in grado di comprenderne il significato, come se fossero versi di un idioma dimenticato però sempre presente nel suo cervello.
Era un incantesimo, non c’erano dubbi. Non poteva essere possibile, se ne rendeva conto, eppure un essere immortale stava pronunciando le parole di una magia oscura, proprio di fronte a lui. Proprio per lui!

***

Queste oscure parole erano foriere di morte e di dannazione, entrandogli dentro la mente la mente, gli mostrarono mondi ed esseri che non aveva mai neppure potuto immaginare nei suoi incubbi peggiori. In quel momento comprese la menzogna della sua sua vita, della vita che tutti gli uomini conducono, ignari dei veri orrori che affligono il mondo, convinti delle loro credenze, rassicuranti dalle loro traballanti cosmogonie e dalle imprecisioni fisiche che si illudono di conoscere.
Doveva correre quindi, scappare da quel maledetto villaggio, non gli restava nulla, se non correre fino a farsi scoppiare il cuore, per allontanarsi il piú possibile da quel luogo, nonostante l’età, la mancanza di forze ed il clima mortale che circondava quell’oasi di distruzione.
Se solo fosse riuscito a mettere la giusta distanza tra lui e quei demoni, pensò, magari sarebbe riuscito anche a distruggere quell’altare blasfemo al centro del deserto di cui parlavano le parole che aveva appena sentito. L’altare di cui solo ora a conoscenza, realizzato con quel metallo alieno e maligno con cui erano stati costruiti quegli orrendi monili. Sí, avrebbe dovuto distruggerlo, anche a costo di sacrificare la propria vita, se questo avrebbe potuto ostacolare in qualche modo quell’incubo. Perciò si trovava adesso a correre nel deserto, sotto al Sole assassino di quelle latitudini, d’altronde meglio essere cibo per gli sciacalli e gli avvoltoi che per quei mostri orrendi!
Nelle sue orecchie riecheggiavano le risate beffarde e le minacce esplicite che gli avevano rivolto, tanto da offuscargli la ragione. Non poteva avere dubbi o incertezze, d’altronde, perché non gli era stato dato neanche il tempo di assimilare l’orrore che che lo avevo colpito in pieno volto, facendogli saltare i nervi, lasciandolo in un tanto desolato, quanto sconfinato, oceano di sangue e disperazione.

***

La sabbia cedevole sotto il suo peso lo faceva arrancare, costringendolo a muoversi carponi per superare le dune piú alte e ripide, mentre il Sole sembrava continuasse a farsi beffe di lui, arrostendogli la carne ed accecandolo col riflesso che quel candido ed insidioso terreno gli restituiva.
Nelle sempre piú frequenti soste, i pensieri che si alternavano nella sua mente, erano quelli di resa incondizionata, cioè di abbandonarsi nel deserto, magari tra l’avallamento di due dune, destinato ad essere cibo per saprofagi o “mummifficato” dal calore; e quelli di vana speranza, di riuscire ad arrivare al centro di quello sconfinato inferno e, in qualche modo, di bloccare quel disastro che stava per compiersi e che solo lui, vecchio e senza forze, poteva fermare.
Passarono giorni interi cosí, tra sofferenza ed allucinazioni dovute al caldo, alla disidratazione ed alla disperazione, sorretto solo da quel pallido appiglio di non rendere vana la sua morte, incapace di morire ma anche di opporsi al suo tragico destino fato, finché una sera, sotto l’algido e crudele occhio delle stelle, vide qualcosa muoversi di fronte a lui, a pochi metri di distanza dalla conca in cui si era sistemato per sopportare le rigide temperature notturne. Era qualcosa che si muoveva molto rapidamente, indefinibile e non catalogabile, non poteva essere un avvoltoio né, tantomeno, uno sciacallo o un’altra fiera. Poi d’improvviso, un’altra figura si mosse dietro a quella precedente, e poi un’altra e un’altra ancora: masse informi, perfettamente mimetizzate col suolo sabbioso, che si muovevano tutte nella stessa direzione.
Oramai incapace di fare distinzione tra sogno e realtà, non ebbe il minimo dubbio sulla possibile veridicità di quella scena tanto particolare. Strisciando sulla sabbia cercò allora, di avvicinarsi facendo bene attenzione a non farsi vedere, al punto verso cui sembravano convergere tutte quelle oscure ed informi creature, sperando, in cuor suo, di essere arrivato al termine del suo doloroso viaggio.
Speranza, purtroppo per lui, non disattesa. Infatti, superato un piccolo e soffice monticello, sdraiato a terra, potè finalmente vedere quel maledetto altare blasfemo, di fattura tanto particolare da risultare alieno. Gli venne in mente, per qualche motivo a lui sconosciuto, che quella mostruosità poteva essere una sorta di “Arca dell’Alleanza” demoniaca. Dalla sua struttura parallelepipedica veniva emanata un’orrenda luce verdastra che rischiarava con un colore spettrale l’intera spianata su cui era andata a formarsi una scena spaventosa ed irreale.

***

In piedi, dietro quel mostruoso blocco di metallo alieno, si stagliava la figura di quell’uomo antichissimo che pochi giorni prima, nel villaggio, lo aveva maledetto. Fiero e possente, sembrava il re del mondo, come se fosse stato latore di infiniti ed inimmaginabili poteri, ma questo, il povero missionario, sapeva non era vero, aveva capito, proprio il giorno della sua maledizione, che erano ben altre le creature, o entità, che reggevano l’universo, qualcosa di cosí distante dalla mente umana che poteva non avere una forma ben definita e descrivibile con parole di natura umana.
Attorno al diabolico sacerdote era radunata gran parte della tribú da cui era scappato e, cosa ancora peggiore, una moltitudine di orrende e piccole creature deformi, quelle che aveva seguito poco fa, completamente rapite da quell’uomo immortale. I mostricciattoli avevano un aspetto vagamente umano, con due braccia e due gambe, ma troppo piccoli ed esili per poter essere umani, con una piccola testa tonda con occhi e orecchie sproporzionatemente grandi ed una spaventosa e crudele bocca enorme. Come se non bastasse il loro corpo sgraziato era di un orrendo color grigio, che poteva richiamare il colore della sabbia al chiaro di Luna, ed un corpo imbolsito e cadente, da anziano deformato dall’età.
Cosí concentrato su quella scena, il missionario non si rese conto che stava venendo accerchiato da queste strane creature, fino a che una marea di mani ossute ma terribilmente forti, lo afferrarono per i polsi e le caviglie, strizzandolo nella carne e stringendolo il piú possibile per fargli male e, sollevato di peso, lo portarono ai piedi del capo di quel villaggio che aveva stolidamente pensato di poter evangelizzare neanche una settimana prima. In una manciata di ore il mondo era completamente cambiato, trasformandosi da una realtà accettabile ad macabro sogno mortifero di chissà quale potente creatura aliena.

***

Tutti gli spettatori ammutolirono quando il vecchietto fu depositato di fronte all’altare, il silenzio di quegli attimi fu tale da schiacciare le stanche e fragili ossa del missionario che crollò a terra, incapace di rialzarsi mentre l’officiante di quel terribile rituale, con fare ieratico alzò le braccia al cielo pronunciando una serie di parole incomprensibili. Quegli stessi oscuri versi che aveva già sentito e che in qualche modo l’orecchio stava abituandosi ad ascoltare e a temere.
Un’esplosione micidiale nel cielo squarciò il muro del silenzio, sollevando una tempesta di sabbia attorno a loro, generando un vortice nero sulle loro teste. Piú nero della notte, piú nero della notte piú nera mai stata sulla terra. Questo malström aereo iniziò rapidamente ad inglobare al suo interno ogni stella, ogni residuo fonte di luminosità, fatta eccezione per quell’aura vedognola che veniva sprigionata dall’altare, lasciando solo quella spettrale illuminazione proveniente dal terreno, come se cielo e terra si fossero ribaltati. All’improvviso lampi e bagliori fuoriscirono dal centro di quel galattico orrore ed ognuno di questi guizzi luminosi veniva accolto da oscene grida di acclamazione da parte di tutti i partecipanti. Ad ogni lampo le grida divenivano piú forti e violente, e piú aumentava l’intensità delle urla, piú aumentava la frequenza e la potenza di questi lampi, come in una folle spirale di malata esaltazione.
Il missionario, impossibilitato a fare altro, continuava a fissare impietrito quel macabro e vorticante spettacolo. Il suo spirito ne veniva risucchiato e fu costretto a vedere e sentire ciò che nessun essere umano avrebbe mai dovuto vedere e sentire, i piú diabolici e terrificanti segreti di tutto il Creato, la realtà piú abissale che nessun uomo abbia mai potuto concepire ed il tragico destino di tutta l’umanità.

***

Quel supplizio durò ore, ore interminabili di continua sofferenza ed agonia per il corpo e per la mente, mentre i selvaggi, completamente impazziti ed invasati da quell’oscuro rituale, iniziarno a dare sfogo ai loro istinti piú bestiali, arrivando a combattere e ad uccidersi tra di loro, uomini e mostri, e concludendo il tutto con un macabro banchetto rituale con le carni di chi aveva perso quella lotta mortale. Banchetto cui fu costretto, con la forza, a partecipare anche il povero missionario, inerme spettatore di tutto quell’insensato orrore, almeno finché il destino, finalmente clemente, non gli fece perdere i sensi donandogli la pace dell’oblio.
Dormí per giorni interi senza sosta e quando iniziò a risvegliarsi il sogno si confondeva ancora con la realtà, tra maledizioni e divinità aliene ed il suo viaggio verso il mondo civilizzato, lontano da quell’incubo durato meno di una settimana ma che gli aveva distrutto la vita per l’eternità.
Cosí, quando finalmente si risvegliò in una squallida camera d’albergo, con le forze recuperate, quando provò a mettersi in piedi, sentí una fitta al torace, che scoprí fasciato con luridi stracci legati alla bell’e meglio, probabilmente da mani non competenti in fatto di medicazioni. Tremante andò di fronte ad uno specchio per liberarsi da quel primitivo bendaggio e l’immagine che lo specchio gli restituí lo fece pentire di aver voluto, ancora una volta, vedere. Incisi nella sua carne c’erano gli stessi segni blasfemi che aveva visto quella notte su quell’altare maledetto. Segni che oramai sapeva essere lettere di un alfabeto impossibile, che formavano una maledizione per tutta l’umanità!
Il suo destino non era quindi quello di morire per mano di quegli adoratori di orrende divinità, no, lui doveva essre il testimone di quell’orrore, doveva esserne, suo malgrado, la causa, l’araldo!

Abyssus Abyssum Invocat

L’onnipotente Lord Baffon II, adepto del culto perverso della CapraDiddio, ha preso l’immagine di Liza e l’ha rielaborata trasformandola da china su carta in china su schermo.Gli astri si sono piegati al suo volere e noi, Grandi Antichi, plaudiamo al lavoro fatto e invochiamo venti giorni di sacrifici in onore di Cthulhu.

Cthulhu Skan

 

Ricordatevi che il motto è sempre lo stesso:

MAKE CTHULHU GREAT AGAIN

Memorie senza tempo

Ricordo. Qualcosa ora ricordo.
Il buio, il silenzio e poi i canti, quei terribili canti. Una nenia insopportabile, senza fine. Il ritmo ossessivo e sincopato, i tamburi che rimbombavano nel sottosuolo, il ticchettio sordo delle ossa che, freneticamente, seguiva quell’oscena musica aliena che pervadeva l’aria.
Il fuoco! Le fiamme! Il sangue!

***

Ho barlumi sparsi, lampi di memoria sbiaditi. Non riesco ancora a ricordare tutto, alcune parti sono un vuoto senza fine, un’assoluta mancanza di luce e di tempo.
Ricordo il signor Graves, i suoi modi distinti e garbati nonostante la paura.
Sento ancora nelle orecchie la sua voce cordiale, priva di accenti, mentre mi chiede se sono il dottor Charles Devine, ricercatore della Miskatonic University, nonché studioso della civiltà sumera.
Lo ascoltai, mi raccontò la sua storia di spettri, o divinità, non sapeva dirmi con precisione, che perseguitavano la sua vita per mano di una banda di folli sanguinari che già si era fatta notare nel Nuovo Messico.
Risposi che non ne sapevo nulla e che avrebbe dovuto rivolgersi alla polizia, se qualche maniaco lo stava minacciando, ma insistette cosí tanto, in modo cosí distinto, pur lasciando trapelare il suo timore, che alla fine cedetti alle sue insistenze.

***

La stanza era quasi completamente al buio, ricordo il brivido lungo la spina dorsale quando, nella penombra, Graves mi mostrò quella maschera in terracotta. A colpo d’occhio poteva sembrare un manufatto sumero, anche se in effetti c’erano dei particolari vagamente inquietanti che non collimavano con le conoscenze che noi accademici avevamo di quella cultura.
Era qualcosa di sottile ed indefinito, avevo da poco letto il saggio di Baltrušaitis sull’arte romanica e sumera e in quella maschera c’era qualcosa di sbagliato.
Sulla scrivania c’era una pila di foglietti imbrattati di sangue. Incredibilmente era scrittura cuneiforme, sembravano messaggi minatori, scritti col sangue. In sumero!

***

Fu un inverno molto freddo. Passavo quasi tutto il mio tempo libero nell’accogliente appartamento del signor Graves. Sembrava quasi che il mio arrivo avesse messo un freno ai fanatici molestatori del mio nuovo amico, dico quasi perché un pomeriggio, aveva da poco smesso di nevicare, qualcuno bussò alla porta. Il mio ospite si alzò per andare ad aprire ma arrivato nell’ingresso lanciò un urlo e lo
sentii cadere.
Corsi in suo soccorso, dalla porta spalancata oltre all’aria gelida entrava un odore insopportabile, nauesabondo, ma ciò che vidi fuori dall’uscio quasi fece perdere i sensi anche a me: sulla candida neve caduta da poco, qualcuno aveva lasciato cinque paia di mani, ancora sanguinanti, collegate le une alle altre da strisce di sangue, a formare una stella, come quelle che disegnano i bambini, solo che qui di
infantile non c’era nulla.
Per fortuna non c’era nessuno in giro, data l’ora ed il freddo, cosí feci riprendere i sensi al mio amico e mi occupai di quell’orrore meglio che potei.
Raccolsi quelle mani recise in un sacco ed andai a gettarle lontano da noi, nel bosco.

***

Graves farneticava, io avevo una bruciatura sul braccio sinistro ed una ferita al collo. Però ero almeno ero lucido. Dovevo capire cosa c’era di vero in quel delirio febbrile. Cosa stava cercando di dirmi?
Il vuoto, la scomposizione della materia. Una tortura senza fine per compiacere Azathot. Parole senza senso, scollegate tra loro e da quei pazzi assassini, scollegate dai sumeri o da qualsiasi altro popolo della terra. Tutto l’orrore dell’universo, l’infausto destino dell’umanità, trascritto in un volume conservato nell’università dove lavoravo.
Forse sapevo di cosa stava parlando, avevo sentito delle voci, che allora reputavo leggendarie, su una conoscenza proibita, nella biblioteca della Miskatonic University, assurdo. Doveva essere assurdo, eppure in qualche modo sapevo che c’era qualcosa di vero, lo sapevo e non potevo fare finta di niente.

***

Come faccio a scrivere? Di chi è la mano che regge questa penna? Mi rendo conto che non può essere la mia, è impossibile. È una mano senza età, di un uomo e non di un bambino o di un anziano. Credo di sapere di chi sia. O meglio, credo che se mi sforzassi potrei ricordare, se solo riuscissi…

***

Stringevo quell’odioso libro al petto, Graves, naturalmente mite, ora sogghignava crudele, dicendo che li avevamo in pugno, io annuii, pensando alle dita che avevo perso, a quella specie di cane mostruoso, uscito dall’ombra, forse fatto di ombra stessa! Un demone evocato da quegli assurdi cultisti. Ero stato piú veloce di loro, come ero cambiato in poche settimane. Come era cambiata la mia consapevolezza.
Sapevo, in quel momento, che una forza sconosciuta stava guidando i miei passi. Mi ero sentito potente, protetto da un’entità superiore che voleva che io sopravvivessi.

***

Arrivò infine la paura. Avevo risistemato il Necronomicon al suo posto, in una teca blindata nella biblioteca universitaria. Era un libro maledetto ma estremamente potente. Grazie a quella conoscenza proibita, assieme al mio maestro, Graves, avevo rapito una creatura del Regno del Sogno.
Eravamo passati al contrattacco: avevamo sfidato Nodens in persona! Sapevo che dietro quella folta barba bianca e quel viso gentile, da signore anziano, si celava in realtà un orrore indicibile, un mostro orripilante che regnava dove l’umanità è piú indifesa, nei nostri sogni.
E cosí lo sfidai, per la salvezza dell’uomo e per la maggior gloria del Grande Sacerdote! Iä! Iä!

***

I ricordi si mescolano e si confondono. Ma sono sicuro di quello che ho scritto.
Mi sembra di avere piú ricordi di quanti dovrei avere, come se avessi i ricordi di qualcun altro oltre ai miei. Forse quelli delle persone che ho incontrato nella fase finale della mia vita, o forse in quella iniziale…
Ignoro chi sia questo Nodens di cui ho scritto poco fa, anche se so di conoscerlo. So che l’ho odiato, l’ho sempre odiato e tutt’ora lo odio. Però so anche che non sono io. Non sono io a conoscerlo e ad odiarlo.
Io non sono piú io. Anche se è la mia mano a scrivere, io non la riconosco. Non è la mia mano. Forse scrivo in un futuro a me distante oppure in un passato oramai remoto. Sono in un tempo fuori dal tempo, non ci sono ancora arrivato eppure ci sono sempre stato.
Le ultime righe sono molto confuse, non sono sicuro di quello che sto scrivendo, cercando di rileggerle le parole si accavallano rendendomi impossibile la comprensione. Ogni lettera segue e scavalca la precedente, in una giostra insensata e senza fine.

***

Che gioia e che dolore, ammirare il supremo Azathoth crogiolarsi al centro dell’universo!
Non ho mai aspirato a nulla di piú alto, eppure sono stato ingannato ed ucciso.
Me lo meritavo.

***

Quelle parole maledette, quei versi inumani dei popoli passati. La mostruosità che si è abbattuta sull’uomo sin dall’alba dei tempi, l’umanità l’ha accolta, l’ha fatta sua. Ne ha goduto ed ancora ne gode, rendendo possibile ciò che la natura aveva negato e proibito. Blasfemi riti contro il Creato, maledizioni per distruggere la vita.
L’inferno per compiacere un mostro amorfo ed idiota. Una creatura nata dagli incubi che lei stesso ha creato.
Il fascino maledetto del peccato. Com’è facile irretire un giovane presuntuoso ed arrogante, quant’è stato semplice prendermi per mano, con l’inganno, certo, per condurmi nell’abisso.
In realtà volevo cadere nell’abisso, sapevo che dovevo essere maledetto, lo sapevo e lo speravo, anche se non me ne rendevo conto. Non ancora.

***

I tamburi! I tamburi!
Le ossa umane corrose dai succhi gastrici di abominevoli e gigantesche creature torreggianti sopra di me. Il sangue degli officianti miaschiato al mio ed a quello di altri malcapitati.
I tamburi mi obbligano ad avanzare, la paura mi ferma, ma la vista di tutto quel sangue mi eccita. Io sono stato prescelto, a me spetta l’onore. Il signor Graves mi guarda compiaciuto, lui è il mio maestro ed il mio carnefice. Senza gli abiti vedo chiaramente che non è umano, non completamente almeno.
Il mio corpo svanirà nel nulla, verranno scomposti i miei atomi, però non smetterò di esistere, anzi! Avrò il privilegio di ammirare Azathoth per l’eternità. Iä! Iä!

***

Mentre scrivo la mia storia non so se è la mia parte ultraterrena che obbliga il mio corpo nel passato a farlo o se ancora non è successo nulla, se è solo la profezia di un folle farneticante che, da solo, si condanna all’inferno.
Ciò che so è che per me non c’è speranza, l’orrore che ho visto e che ricordo, sarà il mio castigo ed il mio premio per l’eternità e niente o nessuno potrà cambiarlo, perché questo è sempre stato e sempre sarà.